Le parole che fanno la differenza

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Di Massimo Mele il 14 Giugno 2011. Nessun commento

Molte sono le dichiarazioni, sopratutto provenienti da una parte del movimento femminista, sul progressivo svanire del femminile nella lingua italiana parlata e scritta. Tuttavia, la Signora Grammatica Italiana è favorevole per una inversione di rotta, rincorrendo quello che, in Germania, avviene per la Cancelliera Merkel.

Di seguito un editoriale del CorrieredellaSera.it, per la rubrica la Ventisettesima Ora, di Alessia Rastelli:

Qualche mese fa, durante una discussione, mi viene chiesto a bruciapelo se mi piacerebbe che le istituzioni, i quotidiani e le televisioni usassero sempre il femminile per i nomi di incarichi e professioni quando a svolgerle è a una donna. Vale a dire la presidente e la direttrice anziché il presidente e il direttore, ma anche termini come avvocata, ingegnera, ministra, al posto di avvocato, ingegnere, ministro. Lo confesso, non mi ero mai posta la questione. D’istinto rispondo di sì, che lo preferisco. E aggiungo infervorata che – come dice Nanni Moretti in Palombella Rossa, schiaffeggiando ahimé una giornalista – “le parole sono importanti”.

Poi, i primi dubbi. Innanzitutto con me stessa. Sono stata proprio io a parlare? Io, 29enne, da sempre convinta che le sfide femminili della mia generazione siano molto più concrete – dal numero di posti nei consigli di amministrazione a una diversa legislazione sulla fecondazione assistita – mi ritrovo paladina di una questione all’apparenza solo formale.

Coltivo anche qualche riserva di metodo: è giusto imporre dall’alto un linguaggio che non è ancora entrato liberamente nell’uso?

Alcune parole declinate al femminile – assessora, marescialla, medica – pronunciate al più finora con sfumature ironiche, non rischiano di essere avvertite come forzate, finendo per rendere la comunicazione poco naturale e accentuare ancora di più la differenza di genere?

“Ora che le donne iniziano ad arrivare ai vertici sarà opportuno mettere mano al vocabolario“, diceva Maria Silvia sacchi in uno dei primi post.

Nell’italiano corrente, infatti, il femminile dei nomi di professione, specie per quelli di livello alto, è ancora un tabù. Nessuno – e nemmeno lei stessa – chiama Mara Carfagna ministra delle Pari Opportunità ; Rosa Russo Iervolino è per tutti l’ex sindaco e non l’ex sindaca di Napoli; il sito della Cgil scrive nella biografia di Susanna Camusso “vice segretaria” per poi tornare a “segretario” generale nel giro di poche righe.

Eppure, secondo gli addetti ai lavori, anche forme come rettrice o prefetta sono corrette. “Non c’è nessun impedimento morfologico al loro uso” spiega Cecilia Robustelli, docente di Linguistica italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia, da anni impegnata per un italiano rispettoso dell’identità di genere.

“Anzi – aggiunge la studiosa – adottare il femminile favorisce la chiarezza, riducendo i casi di concordanze quantomeno ambigue, del tipo: Il ministro è incinta”.

Che la grammatica non ponga veti, lo si sa d’altra parte da almeno un ventennio. E’ già chiaro nelle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana redatte nel 1987 dalla studiosa Alma Sabatini. La questione se seguire o meno queste indicazioni, invece, si ripresenta nel tempo a fasi alterne. Oggi il tema – complice il confronto più serrato con gli altri Paesi europei e i movimenti di donne che hanno riempito le piazze negli ultimi mesi – si ripropone.

La pagina su Facebook, Genere, lingua e politiche linguistiche, fondata dalla studiosa Giuliana Giusti, raccoglie numerosi contributi e convegni dedicati all’argomento .

Alcuni esempi: nel novembre 2010 la Rete per l’eccellenza dell’italiano istituzionale (Rei) ha organizzato una giornata di studi dal titolo Maschile e femminile: usi correnti della denominazione di cariche e professioni ; lo scorso maggio è uscita ad opera del Cnr e dell’Accademia della Crusca una Guida alla redazione degli atti amministrativi in cui si suggerisce (paragrafo 17) di esplicitare, per nomi di professioni e ruoli istituzionali, il genere femminile .

Declinare le parole in base al genere reale delle persone da parte delle istituzioni e dei media non è solo una questione formale né un’imposizione dall’alto. Piuttosto, una scelta che renderebbe più chiara la comunicazione, rappresenterebbe ciò che già esiste – le donne e i loro ruoli – senza nasconderli, trasmetterebbe non con un diktat ma attraverso l’esempio un segnale di cambiamento. Certo, all’inizio l’uso di alcune parole rischierebbe di avere un effetto straniante ma si potrebbe incominciare per gradi, prediligendo ad esempio le soluzioni meno inconsuete.

D’altra parte anche Angela Merkel ha scelto dall’alto di farsi chiamare con l’inusuale cancelliera. E oggi quel titolo declinato al femminile, e quella carica ricoperta per la prima volta da una donna, appaiono a tutti naturali. Anche in Italia.

Emma Marcegaglia, Susanna Camusso, Mara Carfagna… siete pronte a farvi avanti?

E voi, lettrici e lettori, cosa ne pensate?

(I brani all’inizio e alla fine del video sono tratti da “Liquida”, dal cd “La lingua segreta delle donne” di Susanna Parigi)

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