Elezioni spagnole 2012: Zapatero non si ricandida.

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Di Massimo Mele il 2 Aprile 2011. Nessun commento

Josè Luis Zapatero, il leader socialista che ha portato la Spagna nel terzo millennio dei diritti civili, ha comunicato che non si ripresenterà nelle elezioni politiche del 2012.

Un’analisi piuttosto dettagliata dei due mandati che hanno cambiato la società spagnola e l’immagine della Spagna nel mondo del Sole 24ore

Il XXXV congresso del Partito socialista spagnolo, nel 2000, si concluse con un risultato a sorpresa. Come leader del Psoe si impose il giovane José Luis Rodríguez Zapatero che, grazie al sostegno dei delegati del Partit dels socialistes de Catalunya, sconfisse 414 voti a 405 José Bono, rappresentante della vecchia guardia. Nonostante lo stretto margine con cui Zapatero vinse il congresso, le elezioni generali di quattro e otto anni dopo furono vinte, più che dai socialisti, proprio da lui. E senza dubbio il quasi decennio 2004-2012 verrà ricordato come “il periodo zapaterista”.

Il leader, nato a Valladolid e cresciuto a León, una laurea in Diritto, una moglie, Sonsoles Espinosa, conosciuta sui banchi dell’università, due figlie, Laura e Alba, è stato precocissimo. Deputato a 26 anni, capo dell’opposizione a 40, presidente del governo a 44, ora che di anni ne ha quasi cinquantuno appare già un vecchio arnese arrugginito agli ultimi malinconici passi lungo il viale del tramonto politico.
Finito da mesi negli abissi del gradimento nei sondaggi, Zapatero ha appena annunciato che non si ricandiderà alla premiership nel 2012. La notizia era nell’aria, in vista delle elezioni regionali del prossimo 22 maggio che rischiavano di trasformarsi in una serie di referendum locali su Zapatero. Referendum in cui il presidente del governo rischiava di diventare non più un turbo-attrattore di voti, come in passato, bensì una zavorra affossa-consenso.

Il premier spagnolo, che ha sempre usato pubblicamente il secondo cognome, quello materno, e cioè Zapatero (che significa “calzolaio”), invece del più comune Rodríguez (nonostante il suo affetto per il nonno paterno, capitano repubblicano giustiziato dai franchisti nel 1936), è noto ai suoi concittadini con una serie di nicknames. “ZP” – da pronunciarsi “Zetapé” – è un frutto dello slogan della campagna elettorale del 2004, in cui stava per Zapatero Presidente. Ma divenne poi una pratica scorciatura nei titoli dei giornali e nel linguaggio quotidiano. “Bambi”, dovuto alla sua altezza sottile e agli occhioni chiari inclini a sgranarsi spesso, pare gli sia stato affibbiato con sarcasmo serpentizio da un vecchio big del suo stesso partito, Alfonso Guerra, ma è poi diventato un affettuoso soprannome. Come Bambi, anche “premier circonflesso” ha un’ascendenza somatica: le sopracciglia dal disegno arcuatissimo.

Fin dai suoi primi anni alla guida del Psoe, Bambi si è rivelato un cerbiatto ben poco fragile e remissivo. Punta di lancia della corrente interna Nueva Vía, una sorta di ricalcatura iberica dell’altrettanto giovanilista New Labour di Tony Blair, Zapatero, dopo aver preso il controllo del partito, con morbido piglio dirigista ha fatto accomodare al tavolo di comando una turba di trenta-quarantenni a lui fedelissimi, fecondando con i semi del futuro “zapaterismo” il campo socialista. Dopo quattro anni di arature all’opposizione e la vittoria alle elezioni del 2004, aiutata dalla spinta emotiva generata dai sanguinosissimi attentati di Madrid dell’11 marzo, avvenuti poche ore prima dell’apertura delle urne, il neopremier ha visto crescere rigogliosa la pianta zapaterista.

Dopo aver ritirato di gran corsa, come da promessa elettorale, i soldati spagnoli dall’Iraq (ma non dall’Afghanistan per non irritare troppo Washington), Zetapé si mise a ridisegnare la società spagnola secondo i dettami del cosiddetto “socialismo ciudadano”, il “socialismo dei cittadini”. Un approccio che ha mescolato una diluizione ideologica della sinistra classica europea e della tradizione “felipista” del Psoe a un’accelerazione vigorosissima sul tema dei diritti. Nei primi anni di governo è stato approvato à la bersagliera un pacchetto di leggi che hanno rivoluzionato l’immagine della Spagna. Matrimonio per le coppie omosessuali, legge sul divorzio express, norme severissime su quella violenza di genere di stampo machista che continua a piagare il paese, allentamento in senso permissivo della legge sull’aborto, la “Ley de Dependencia” che provvede ai bisogni delle persone non autosufficienti. Queste leggi sono diventate bandiere dello zapaterismo e garrendo a Madrid hanno attratto molta attenzione anche all’estero. Per qualche anno il premier spagnolo è diventato una sorta di faro internazionale. Un modello positivo per alcuni, un modello negativo per altri, ma pur sempre un’immaginette davanti a cui genuflettersi o davanti a cui inorridire.

L’obiettivo zapateriano era quello di trasformare la Spagna, a neanche trent’anni dalla morte di Francisco Franco, in un attrattivo caleidoscopio dell’avanguardismo sociale, nel laboratorio di una nuova sinistra ultralibertaria, in un porto accogliente per chi volesse vivere in un paese con già due piedi nel futuro, liquido, veloce, giovane e “smart”. Il gioco è riuscito soltanto per qualche tempo.
La Spagna del primo Zapatero sembrava un paese dall’economia spumeggiante, preceduto dal segno più in tutti i campi. Meta agognata di ogni vacanza, di ogni studente in Erasmus, di ognuno che volesse assaggiare un po’ di “movida”, parola che dal suo circoscritto significato con cui nacque nell’immediato periodo del postfranchismo ha assunto via via un significato globale di lifestyle spumeggiante da sperimentare o nelle morbidezze mediterranee di Barcellona o nella Madrid che, pur infitta al centro della Spagna profonda, si è scoperta come una capitale europea con le bollicine.

Si trattava, come poi si è visto, di un sogno. Appisolato sugli allori di una crescita le cui basi si sono poi rivelate friabilissime, Zapatero prometteva il sorpasso sulla Francia e sulla Italia quanto a Pil per abitante e si permetteva di trascurare ogni tema economico, continuando a puntare i riflettori sulle sue manovre di ampliamento dei diritti. Il centrodestra intanto rosicava. Per i leader del Partito popolare e per i loro elettori il premier era sempre più un dito nell’occhio. Pur essendo dipinto da destra come un satanasso che sabotava l’unità nazionale a colpi di concessioni ad autonomisti e indipendentisti, come un laceratore della tradizione e dell’assetto sociale della Spagna, come un ingenuo ostaggio di Eta nelle goffe negoziazioni con il gruppo armato basco, come un irresponsabile apprendista stregone che si baloccava con le ampolle dell’ultralaicismo e dell’ultrarelativismo, Zapatero, finché l’economia ha retto, ha però costretto nel recinto della protesta sfiatata i suoi avversari. Il leader dei popolari Mariano Rajoy, che ha soltanto cinque anni più del premier, è apparso a lungo come un coetaneo del suo bisnonno, un brontolone conservatore affezionato a una Spagna polverosa e bacchettona.

Poi è arrivato il patatrac. La finanza e l’economia spagnola sono uscite (o, per meglio dire, stanno ancora cercando di uscire) dalla tempesta della crisi globale con il fasciame a pezzi. La bolla immobiliare è scoppiata con fragore, la disoccupazione è da tempo al 20 per cento, il paese rimane fermo. Il premier ha affrontato i primi marosi fischiettando rassicurante e proponendo qualche nuovo progetto “zapaterista”. Ma le orecchie degli spagnoli si erano di colpo fatte assai più insensibili ai visionari progetti espressi dal vocione baritonale di Bambi. Poi il presidente ha optato d’improvviso per il lacrime e sangue con una serie di iniziative legislative che, se hanno tappato qualche falla nei conti, non hanno certo garantito un surplus di affetto presso chi si è visto congelare l’aumento periodico della pensioni, sgrammare di un qualche cento euro lo stipendio oppure tagliare l’assegno per ogni nuovo nato, che era stato da poco introdotto.

Ora Zapatero, per non lubrificare con la sua presenza ingombrante una débâcle socialista alle elezioni regionali, si è visto costretto ad annunciare la sua rinuncia a correre per un comunque improbabilissimo terzo mandato. Il crepuscolo zapateriano è ora davvero alla fine. Tanto che il candidato più accreditato alla successione alla guida del partito è il ministro dell’Interno e vicepremier Alfredo Pérez Rubalcaba. Pur essendo stato negli ultimi anni un leale collaboratore di Zapatero, Rubalcaba proviene dai ranghi della vecchia guardia del Psoe e nel congresso socialista del 2000 sostenne e votò José Bono. E ora si appresta a ereditare, lui nonno (è nato nove anni prima del premier e la sua carriera nel partito risale al prezapaterismo), dal nipote Zetapé.

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