“Gay, venite in vacanza in Israele” ma è bufera sulla pubblicità di Stato

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Di Massimo Mele il 25 Novembre 2011. Nessun commento

Lo slogan campeggia su una foto di due bei ragazzi a torso nudo. E’ un invito dell’Ente del Turismo israeliano che ha fatto sorgere qualche dubbio anche al New York Times

I diritti degli omosessuali possono essere usati, e di fatto lo sono, come maquillage per ripulire e vendere proposte politiche reazionarie altrimenti inaccettabili, oppure, come nel caso d’Israele, per nascondere la sistematica violazione dei diritti dei palestinesi dietro allo slogan, a metà strada tra l’offerta turistica e il manifesto propagandistico, che descrive Tel Aviv come la meta ideale del popolo gay. Questo è, in sintesi, il contenuto di un editoriale apparso sul New York Times in cui Sarah Schulman, docente di materie umanistiche, descrive il fenomeno chiamato “pinkwashing”. In realtà, più che di una moda culturale si tratta di una tattica diffusa in quei settori dell’estrema destra europea che non celano la loro avversione verso gli immigrati e i musulmani e che sono tuttavia riusciti a cooptare tra le loro fila anche persone gay, lesbiche o transgender, facendo leva sulla loro paura nei confronti di immigrati e musulmani generalmente descritti come omofobi e fanatici persecutori degli omosessuali. Senza ovviamente menzionare il ruolo condizionante nel sollecitare queste paure che esercitano i cristiani fondamentalisti, le gerarchie cattoliche e molte correnti dell’ebraismo ultra-ortodosso. Adesso, però, afferma Sarah Schulman, questo fenomeno, il “pinkwashing”, appunto, ha travalicato i confini dell’Europa xenofoba occidentale per diventare una delle armi impiegate dalla propaganda israeliana nel conflitto senza fine coi palestinesi. Non sono passati molti anni da quando ai gay israeliani che osavano presentarsi al memoriale dell’Olocausto per commemorare l’eccidio degli omosessuali e degli zingari, assieme allo sterminio degli ebrei per mano dei nazisti, veniva impedito l’accesso. I rabbini depositari dell’ortodossia li hanno sempre considerati il massimo della perversione. I gay-pride parade hanno sempre rappresentato un problema di ordine pubblico, a Gerusalemme, con i cortei supersorvegliati costretti a percorrere soltanto poche centinaia di metri, circondati dalla polizia, tra due ali di folla ostile. Ma a Tel Aviv, una sorta di riserva indiana per una minoranza liberale sempre più ristretta, l’atmosfera è sempre stata di accettazione e tolleranza. Dalla metà dello scorso decennio, per dirla con Aeyal Gross dell’Università di Tel Aviv, «i diritti degli omosessuali sono diventati uno strumento di pubbliche relazioni anche se politici conservatori e specialmente religiosi sono rimasti fieramente omofobici». Ma non, apparentemente, il governo, che ha promosso una campagna per vendere il “brand Israel”, Stato aperto e moderno, destinata a un pubblico maschile dai 18 ai 34 anni, ed un’altra è stata lanciata dall’Ufficio del Turismo (90 milioni di dollari) per promuovere Tel Aviv come “international gay vacation destination”. Tutto questo, secondo Sarah Schuman ha indotto alcune persone di buona volontà a considerare erroneamente che il grado di avanzamento di un paese dipenda da come risponde al problema dell’omosessualità. In realtà, conclude, quella del governo israeliano è una strategia per nascondere la continua violazione dei diritti dei palestinesi dietro ad un paravento di modernità rappresentato dalla vita dei gay in Israele.

Fonte pianetanews.com

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