Nel bosco degli elfi gay

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Di Massimo Mele il 15 Ottobre 2010. Nessun commento

A faeries fest

Si chiamano Faeries. Sono omosessuali radicali che vivono in comunità, lontano dai centri abitati, e sono profondamente antisistema. Usano il corpo e il sesso come strumento di conoscenza dell’altro

Il movimento nacque negli anni Settanta in America. E solo ora sta sbarcando in Europa. Italia compresa. Sono i novelli Pan, ninfi e ninfe dei tempi moderni. C’è Lopi, la bambola vivente che suona nel bosco. C’è Weasel che sfoggia il corno e indossa le pelli del piccolo mammifero da cui ha mutuato il nome. C’è Iunce di drappi vestita. E c’è la sirenetta lesbica in coppia con il mago barbuto, che emula le fattezze di Albus Silente, prodigioso preside di Harry Potter. Un agricoltore zappa la terra coperto solo dei suoi tatuaggi. Una Drag Queen ha sostituito il palcoscenico con una capanna di legno. Ecco i Faeries, “fatine del bosco” che invadono il terzo millennio snobbando caos, frenesie e reti telematiche. Con una particolarità: sono tutti omosessuali, questi spiritelli terreni. I moderni elfi gay, che nel gergo di oggi si chiamerebbero “queer”, si sentono in qualche modo i discendenti spirituali delle streghe arse sui roghi negli anni bui del Medioevo: uomini e donne che hanno scelto di allontanarsi dal quotidiano ed erigere un santuario sull’altare della natura. Vivono insieme, lontano dalla società organizzata, rifiutano la cultura metropolitana dell’omosessualità e ribaltano il senso spregiativo che parole come “fatina”, o “frocio”, hanno rappresentato per decenni nella cultura gay. Scegliendo il corpo e il sesso come strumento di conoscenza dell’altro.

Negli Stati Uniti sono un movimento antisistema, germogliato dall’onda hippy a fine anni Settanta e ormai diffuso in tutto il Paese. Ma la “vita feerica” sta lentamente contagiando anche l’Italia, dopo avere invaso il Nord Europa, dall’Inghilterra alla Francia. Per ora nel nostro Paese non ci sono i cosiddetti “santuari”, come chiamano i villaggi nascosti nelle grandi pianure americane o sorti attorno a vecchi edifici dismessi e lontani dalle città. Eppure dentro queste comunità s’affacciano sempre più spesso anche gay, lesbiche e trans che cercano un’identità nuova fuori dal nostro Paese. Si danno nomi di fantasia. Scelgono maschere e abiti da Mardi Gras. Il nudo non è trasgressione e tanto meno peccato, è condizione di dialogo fra corpi e menti: “Fra noi Faeries io e tu diventa io e io: entrambi. Si vive in comunità, che possono essere piccoli gruppi di amici che si ritrovano a casa di qualcuno o intere comunità che affittano o comprano grandi terreni per trasformarli in aree sacre permanenti”, racconta a “L’espresso” uno di loro. È un globetrotter di 47 anni, originario di Roma, che si fa chiamare Isildur, come il re dei Numenoreani ne “Il Signore degli Anelli”. Somiglia molto ai protagonisti dei grandi raduni radical del centro America: “Ci conosciamo attraverso il sesso, camminiamo nudi nel bosco o ci travestiamo. Tutti i vestiti sono travestimenti, dallo smoking al costume sciamanico. Indossiamo spesso maschere o ci coloriamo il volto. Per noi il trucco ha un valore sacro, l’ornamento del viso e del corpo sono forme di comunicazione con il divino che ci circonda”.

Radical faeries all'Hackney Pride settembre 2010

Alla pop art e alle provocazioni gay di Andy Warhol rispondono con la controcultura pagana. Proprio quella che, secondo uno dei loro antesignani, Arthur Evans, è sopravvissuta al trionfo del cristianesimo in Europa nascondendosi per secoli ai margini della società. Suona come un manifesto dei sobborghi della conoscenza che si ribellano al global: “Siamo una rete di omosessuali, artisti, lavoratori, abitanti delle città in fuga che sentono la cultura gay, lesbica e transessuale come una comunità distinta, separata dalla società di massa, con una nostra spiritualità, un nostro modo di essere. Dobbiamo unirci e diventare un grande popolo, recuperare l’equilibrio perduto della più ampia comunità umana del pianeta”, scrive Joey Cain che cura la newesletter mensile del Nomeus Wolf Creek Sanctuary. Ma i Faeries non hanno un capo, né eleggono un leader. Ognuno di loro è divino e parla per se stesso. Si uniscono per darsi aiuto reciproco, mescolando gioco, amore, pensiero e sesso come strada verso una nuova forma di conoscenza degli esseri umani. In quei villaggi si lavora la terra, si mangia e si dorme insieme, senza un impiego, senza debiti e senza violenza. Spinti solo da un profondo rispetto per la “terra madre” che unisce religioni e culture diverse: buddismo e protestantesimo, new age ed ebraismo, islam e wicca, sciamanesimo fino al cattolicesimo. Al dogma sostituiscono una comune visione della vita, proprio come ha fatto Isildur, che racconta di avere raggiunto addirittura La Mecca dei Faeries: il Montagna Short Sanctuary nel Tennessee e il Faerie Camp destiny nel Vermont. È lì che vengono ospitati i grandi raduni mondiali, dove migliaia di omosessuali e lesbiche che hanno scelto la Faerie Life si danno appuntamento. Qualcuno ci rimane per mesi o anni, altri solo per pochi giorni. Ci si dedica alla creazione del “cerchio sacro”, al passaggio del talismano, ai riti di danza estatica come il Kali Fire per cacciare dall’esistenza il superfluo, ciò che non è davvero necessario e desiderato.

Tutto cominciò nel 1979 quando un tale di nome Harry Hay, assieme al suo compagno, invitò la comunità gay degli Stati Uniti a una riflessione sul senso spirituale della propria condizione, lanciando la prima conferenza spiriturale di Radical Faeries. La sua visione era forse la più semplice e antica: il ritorno alla natura, la celebrazione delle stagioni, dei solstizi e degli equinozi, il recupero dei rituali dei nativi americani come appunto il “cerchio”. E così oggi quel minuscolo Circolo Faerie è diventato internazionale e, dai radical americani, sta sgorgando una vera e propria cultura eurofaery, come è stata ribattezzata dallo studioso Federico Campagna. Nel Vecchio continente arrivarono nel 1995, sull’isola di Tersehellreng al largo dell’Olanda. Ma non è mai stato un tentativo di emulazione degli americani. “Il fatto che in Europa non si parli una lingua comune, ad esempio, crea spazi di comunicazione molto ampi e dà un senso profondo all’essere europei, basato sulle differenze e non sull’omologazione come invece spinge a fare la politica”, raccontano Lappi e Shokti del gruppo Albione. In Italia per ora c’è solo un riverbero di tutto questo. Anche se Isildur scommette che la cultura feerica dilagherà e presto sorgerà un santuario: “È più difficile perché c’è l’ostacolo della cultura cattolica che, a differenza di quella protestante, non è un humus favorevole”, spiega. L’altra muraglia è la cultura gay: “Ha modelli sempre più basati sulla bellezza, l’eterna giovinezza e il sesso sempre e comunque. La scena gay italiana chiede questo, mentre noi cerchiamo un rapporto naturale fra i corpi. E seguiamo il coniglio bianco”.

venerdì 15 ottobre 2010 , di L’Espresso

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