Cocktail contro l’Hiv

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Di Massimo Mele il 10 Settembre 2010. Nessun commento

di Giulio Maria Corbelli da Pride Settembre 2010

Alle conferenze mondiali sull’Aids c’è di bello che ti spiegano tutte le cose, magari anche quelle che sai già, ma dimostrandole scientificamente. Può sembrare inutile, ma c’è gente che se non gliela dimostri chiara e tonda una cosa, proprio non ne vuole sapere di capirla… A Vienna, durante l’ultima conferenza svoltasi dal 18 al 23 luglio, di come funzionano le cose abbiamo capito un bel po’ di più.
Prendiamo il dilagare delle infezioni da Hiv tra i gay: mica nessuno dubita che ci siano, ma fa un certo effetto sapere che da rigorose analisi statistiche risulta che praticamente non esiste paese al mondo in cui la prevalenza (cioè il rapporto tra persone infettate in una popolazione e popolazione stessa) tra i gay non sia almeno 3-4 volte quella nella popolazione generale. A dimostrarlo c’ha pensato Chris Beyrer, che dirige un importante centro di ricerche epidemiologiche e cliniche sull’Aids a Baltimora. Tanto per confermare il dato, possiamo prendere qualche paese a caso da varie parti del mondo: in Tailandia la percentuale di sieropositività diagnosticata tra i gay è del 30% contro l’1,4 della popolazione generale, nelle grandi città del Brasile è del 13% contro lo 0,6%, mentre negli Usa il tasso di nuove infezioni tra gli Msm (dall’inglese Men who Have Sex with Men) è 44 volte quello degli altri uomini. Anche in Uganda la prevalenza tra i gay è 3 volte quella tra gli etero. Vogliamo venire in Europa? Non c’è problema: Regno Unito, tra i gay il 3,8% è stato diagnosticato sieropositivo, cioè 10 volte la percentuale registrata tra gli etero.
So cosa state pensando: e l’Italia? Chiedete troppo. Noi non sappiamo nemmeno esattamente quante persone vengano diagnosticate sieropositive ogni anno (il sistema di rilevamento è stato approvato ma non è ancora a regime), figurarsi se siamo in grado di avere dati sulla popolazione omosessuale. Però, facendo due calcoli sui dati forniti dalle stime, si ottiene – ma il risultato è da prendere con le pinze – una prevalenza tra gli omosessuali maschi 4 volte superiore a quella tra i maschi etero. Questo per mettere in chiaro che se leggete sui giornali che ora la maggior parte dei contagi sono tra eterosessuali non vuol dire che i gay siano meno colpiti degli etero: è che gli etero sono decisamente di più!
Insomma i gay continuano ad essere più colpiti. E non perché siano una categoria di persone più infettiva, come certi addetti alla donazione di sangue millantano. È vero che nel rapporto anale – ovviamente se non è protetto – ci sono maggiori probabilità di trasmettere l’infezione, secondo i ricercatori dell’Imperial College di Londra 18 volte di più rispetto al rapporto vaginale (1,4% nel ruolo ricettivo o passivo contro lo 0,08%, il rischio diminuisce ma solo fino allo 0,62% per il ruolo insertivo o attivo). Ed è vero anche che epidemiologicamente i gay sono stati più colpiti nel corso degli anni. Ma gli omosessuali hanno le stesse possibilità degli etero di rimanere sieronegativi: basta usare sempre il profilattico. Il problema è che questa informazione oggi circola con meno forza, e la percentuale di gay che fanno sesso non protetto cresce continuamente (anche questo è dimostrato in vari studi sui comportamenti sessuali degli Msm in varie zone del mondo). Mancano le campagne di informazione dirette ai gay, cioè persino la prevenzione nel senso tradizionale del termine. Che è sicuramente il primo punto fondamentale per avere qualche successo nella lotta all’Hiv.
Ma c’è dell’altro. Uno dei problemi principali, come rivela uno studio di Joseph Barker che lavora per il Global Aids Program, è che chi vive su di sé l’odio omofobico è molto più facilmente vittima di comportamenti sbagliati, tanto che secondo le statistiche ha 5 volte più probabilità di infettarsi con l’Hiv. Sarà che le persone che vivono con sofferenza l’idea di fare parte di una minoranza forse hanno difficoltà a prendersi cura di se stesse, ma certo se anche il governo non fa nulla per dar loro una mano le speranze si affievoliscono. È tutto affidato alla loro buona volontà, esattamente come in Italia (a proposito, lo sapete che l’unica presenza italiana visibile alla conferenza di Vienna era lo stand di Cassero Salute? Ministero e Istituto superiore di sanità sono gentilmente pregati di prendere nota).
Il concetto è che la realizzazione di azioni preventive efficaci è un problema di diritti umani, perché se l’omofobia impedisce di raggiungere risultati sanitari, l’ostacolo da rimuovere sta nel mancato riconoscimento delle persone lgbt. Stesso discorso per gli altri gruppi maggiormente esposti al rischio di infezione, come i consumatori di droghe iniettive o i sex worker. Quindi, secondo punto importante: il rispetto dei diritti umani, un tema che è stato al centro della conferenza Aids 2010 che aveva proprio come slogan Rights here, right now! “Senza il rispetto dei diritti umani e quindi anche dei diritti delle minoranze sessuali non ci può essere alcun successo nella lotta all’Aids” è stato l’allarme lanciato, tra i tanti, da Julio Montaner, presidente della conferenza.
Veniamo alla terza arma, la terapia, che in questo scenario non proprio roseo ci fornisce qualche notizia positiva. Nel senso che gli studi dimostrano che se una buona parte delle persone sieropositive segue correttamente il trattamento antiretrovirale, oltre al fatto che si ammalano e muoiono meno di Aids, si può riuscire a limitare un po’ il progredire delle nuove infezioni. In questo caso si tratta di una analisi epidemiologica condotta tra gli Msm in Danimarca, dove si è registrato una diminuzione del tasso di incidenza di infezione da Hiv. Susan Cowan e i suoi colleghi danesi hanno provato a spiegare questo dato con i numeri e si son presi la briga di andare a vedere quante persone omosessuali si sottopongono al test (il 77% almeno una volta, il 50-59% nell’ultimo anno) e quante di quelle diagnosticate sieropositive fanno la terapia (l’80%) e di queste quante con successo (l’85% aveva carica virale non rilevabile). Cioè si è messa in pratica la strategia cosiddetta del test and treat, che prevede di diagnosticare il maggior numero possibile di persone sieropositive e di indirizzarle verso una corretta terapia. In questo modo, quindi, anche se le statistiche dicono che il numero di persone omosessuali sieropositive viventi cresce, evidentemente il virus totale circolante è stato ridotto dalla terapia perché non è certo grazie al sesso sicuro che si è abbassato il tasso di infezioni: le diagnosi di sifilide, clamidia e gonorrea, infatti, sono in aumento e anche dalle interviste effettuate si scopre che la percentuale delle persone sieropositive che hanno fatto sesso anale non protetto con qualcuno che avrebbe potuto essere (o era) sieronegativo era del 37% nel 2001 e del 64% nel 2009. Altro che sesso sicuro.
Il fatto che la terapia possa – forse – abbassare i rischi di infezione non significa in nessun modo che si possa fare a meno dei sistemi preventivi tradizionali, cioè del profilattico. Anche perché, come dicono i danesi ma anche molti altri, le altre malattie a trasmissione sessuale hanno un vero boom tra i gay in questo periodo. Per non parlare poi della epatite C, con la quale ad esempio la maggioranza dei gay sieropositivi statunitensi sono co-infetti. Però per l’Hiv la terapia, secondo queste prime dimostrazioni scientifiche, potrebbe forse essere un’arma importante, sempre ammesso che si riuscisse a mettere in terapia la quasi totalità delle persone sieropositive.
Abbiamo quindi individuato tre punti principali: prevenzione, diritti umani, terapia. Per azioni efficaci bisogna combinarli tutti e tre, esattamente come per avere una terapia efficace contro il virus è necessario usare tre farmaci diversi. Proprio seguendo questa analogia, è stata coniata da tempo l’espressione “prevenzione di combinazione” per indicare quei tipi di interventi che prevedono “una combinazione strategica e formata sull’evidenza di strategie biomediche, comportamentali e strutturali all’interno del quadro di rispetto dei diritti umani”, secondo l’espressione usata dal peruviano Carlos Cáceres nel suo intervento Combination prevention: moving from debate to action. “Focalizzarsi sugli individui per la prevenzione, con approccio biomedico e comportamentale, non è sufficiente – ha detto Cáceres – Investire in interventi strutturali non è solo un obbligo etico ma anche un investimento redditizio, necessario per una risposta sostenibile e a lungo termine”.
A dargli ragione c’è proprio Beyrer, quello che abbiamo citato all’inizio: è lui che ha elaborato un modello matematico secondo il quale se si mettono in campo iniziative di prevenzione combinate come indicato nel modello di Cáceres e dirette alla popolazione dei gay e degli altri Msm, in particolari contesti epidemiologici, cioè in quei paesi in cui la diffusione dell’infezione è soprattutto dovuta a rapporti omosessuali non protetti, si può avere una riduzione del tasso di infezioni anche nella popolazione generale. Il fatto che si tratti di un modello matematico può farvi credere che tutto rimanga nell’ambito delle teorie, ma è scienza, non filosofia. E davanti alla scienza, come ha detto Stephen Lewis, ex inviato speciale delle Nazioni Unite per l’Hiv/Aids in Africa, anche i politici più omofobi devono convincersi: perché se gli dimostri scientificamente che fare politiche efficaci verso la popolazione omosessuale serve a tutta la nazione, forse finalmente la smetteranno di considerarci cittadini di serie B. Proviamo a sentire che ne pensano i nostri governanti?

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